Il mandato missionario ci tocca da vicino: io sono sempre una missione; tu sei sempre una missione; ogni battezzata e battezzato è una missione. Chi ama si mette in movimento, è spinto fuori da sé stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita. Nessuno è inutile e insignificante per l’amore di Dio. Ciascuno di noi è una missione nel mondo perché frutto dell’amore di Dio. Anche se mio padre e mia madre tradissero l’amore con la menzogna, l’odio e l’infedeltà, Dio non si sottrae mai al dono della vita, destinando ogni suo figlio, da sempre, alla sua vita divina ed eterna (cfr Ef 1,3-6). Questa vita ci viene comunicata nel Battesimo, che ci dona la fede in Gesù Cristo vincitore del peccato e della morte, ci rigenera ad immagine e somiglianza di Dio e ci inserisce nel corpo di Cristo che è la Chiesa. In questo senso, il Battesimo è dunque veramente necessario per la salvezza perché ci garantisce che siamo figli e figlie, sempre e dovunque, mai orfani, stranieri o schiavi, nella casa del Padre. Ciò che nel cristiano è realtà sacramentale – il cui compimento è l’Eucaristia –, rimane vocazione e destino per ogni uomo e donna in attesa di conversione e di salvezza. Il Battesimo infatti è promessa realizzata del dono divino che rende l’essere umano figlio nel Figlio. Siamo figli dei nostri genitori naturali, ma nel Battesimo ci è data l’originaria paternità e la vera maternità: non può avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come madre (cfr San Cipriano, L’unità della Chiesa, 4). Così, nella paternità di Dio e nella maternità della Chiesa si radica la nostra missione, perché nel Battesimo è insito l’invio espresso da Gesù nel mandato pasquale: come il Padre ha mandato me, anche io mando voi pieni di Spirito Santo per la riconciliazione del mondo (cfr Gv 20,19-23; Mt 28,16-20). Al cristiano compete questo invio, affinché a nessuno manchi l’annuncio della sua vocazione a figlio adottivo, la certezza della sua dignità personale e dell’intrinseco valore di ogni vita umana dal suo concepimento fino alla sua morte naturale. Il dilagante secolarismo, quando si fa rifiuto positivo e culturale dell’attiva paternità di Dio nella nostra storia, impedisce ogni autentica fraternità universale che si esprime nel reciproco rispetto della vita di ciascuno. Senza il Dio di Gesù Cristo, ogni differenza si riduce ad infernale minaccia rendendo impossibile qualsiasi fraterna accoglienza e feconda unità del genere umano.
Purtroppo a volte le ideologie ci portano a due errori nocivi.
Da una parte, quello dei cristiani che separano le esigenze sociali del Vangelo dalla propria relazione personale con il Signore, dall’unione interiore
con Lui, dalla grazia. Così si trasforma il cristianesimo in una sorta di ONG, privandolo di quella luminosa spiritualità che così bene hanno vissuto e manifestato
san Francesco d’Assisi, san Vincenzo de Paoli, santa Teresa di Calcutta e molti altri. A questi grandi santi né la preghiera, né l’amore di Dio, né la lettura del Vangelo
diminuirono la passione e l’efficacia della loro dedizione al prossimo, ma tutto il contrario.
Nocivo e ideologico è anche l’errore di quanti vivono diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista. O lo relativizzano come se ci fossero altre cose più importanti o come se interessasse solo una determinata etica o una ragione che essi difendono.
La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù, e in ogni forma di scarto.
Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo, dove alcuni festeggiano, spendono allegramente e riducono la propria vita alle novità del consumo, mentre altri guardano solo da fuori e intanto la loro vita passa e finisce miseramente.
Spesso si sente dire che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose simili un politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non un cristiano, a cui si addice solo l’atteggiamento di mettersi nei panni di quel fratello che rischia la vita per dare un futuro ai suoi figli. Possiamo riconoscere che è precisamente quello che ci chiede Gesù quando ci dice che accogliamo Lui stesso in ogni forestiero (cfr Mt 25,35)?
San Benedetto lo aveva accettato senza riserve e stabilì che tutti gli ospiti che si presentassero al monastero li si accogliesse «come Cristo».
Il Levitico dice: «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in
terra d’Egitto» (Lv 19,33-34). (GE 100-103)
Nel capitolo 25 del vangelo di Matteo (vv. 31-46), Gesù torna a soffermarsi su una di queste beatitudini, quella che dichiara beati i misericordiosi.
Se cerchiamo quella santità che è gradita agli occhi di Dio, in questo testo troviamo proprio una regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati:
«Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a
trovarmi» (25,35-36).
96. Essere santi non significa, pertanto, lustrarsi gli occhi in una presunta estasi. Diceva san Giovanni Paolo II che
«se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi».
Il testo di Matteo 25,35-36 «non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo».
In questo richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde,
alle quali ogni santo cerca di conformarsi.
97. Davanti alla forza di queste richieste di Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle e di accoglierle con sincera apertura, “sine glossa”,
vale a dire senza commenti, senza elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza.
Il Signore ci ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue esigenze, perché la misericordia è il «cuore pulsante del Vangelo».
98. Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso,
un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche un’immondizia che sporca lo spazio pubblico.
Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre,
un’immagine di Dio, un fratello redento da Cristo.
Questo è essere cristiani! O si può forse intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni essere umano? (GE 95-98)
Questa beatitudine ci fa pensare alle numerose situazioni di guerra che si ripetono.
Per noi è molto comune essere causa di conflitti o almeno di incomprensioni.
Per esempio, quando sento qualcosa su qualcuno e vado da un altro e glielo dico; e magari faccio una seconda versione un po’ più ampia e la diffondo.
E se riesco a fare più danno, sembra che mi procuri più soddisfazione.
Il mondo delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, non costruisce la pace.
Questa gente è nemica della pace e in nessun modo beata.
I pacifici sono fonte di pace, costruiscono pace e amicizia sociale.
A coloro che si impegnano a seminare pace dovunque, Gesù fa una meravigliosa promessa: «Saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Egli chiedeva ai discepoli che quando fossero giunti in una casa dicessero: «Pace a questa casa!» (Lc 10,5).
La Parola di Dio sollecita ogni credente a cercare la pace insieme agli altri (cfr 2 Tm 2,22), perché «per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3,18).
E se in qualche caso nella nostra comunità abbiamo dubbi su che cosa si debba fare, «cerchiamo ciò che porta alla pace» (Rm 14,19), perché l’unità è superiore al conflitto.
Non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi.
È duro e richiede una grande apertura della mente e del cuore, poiché non si tratta di «un consenso a tavolino o [di] un’effimera pace per una minoranza felice», né di un progetto «di pochi indirizzato a pochi».
Nemmeno cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».
Si tratta di essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza.
Seminare pace intorno a noi, questo è santità. (GE 87-89)
Carissimi amici, la comunità di Villafranca vi fa un invito, spalanca le porte della sua casa e offre l’opportunità per condividere giorni di festa.
Gli ingredienti ci sono tutti per vivere giorni indimenticabili, insieme con tante altre persone che hanno il piacere di incontrarsi, di scambiare quattro chiacchere,
per rilassarsi nel cuore dell’estate, di condividere una cena insieme, per ascoltare un po’ di buona musica, per ‘pescare’ sperando nella buona sorte di un ricordo
da portare a casa, per conoscere i passaggi più importanti della ristrutturazione della nostra chiesa parrocchiale, punto di arrivo di un intervento importante
che non era mai stato fatto con questa radicalità dalla sua fondazione (1890).
E tutto questo frutto della generosità e della creatività di più di 150 volontari che danno tempo, impegno e fantasia per realizzare questo evento centrale
della nostra parrocchia: la sagra dei Ferai.
Festa antica, attorno al Santuario della Madonna, ma che si presenta ogni anno in modo sempre nuovo.
I giovani continuano ad avere un ruolo importante con il loro contributo di freschezza e di voglia di protagonismo; l’angolo culturale avrà una mostra di
foto ‘d’autore’ e la presentazione di alcune immagini commentate che illustrano l’intervento realizzato nella nostra chiesa tornata all’antico splendore.
Da non dimenticare che il primo giorno di sagra, giovedì 1 agosto, ci sarà una serata di sostegno per le opere di Mons. Edoardo Hiiboro,
vescovo amico della diocesi di Tombura Yambio in Sud Sudan.
Un grazie va a chi si sta spendendo per offrire a tutti un’esperienza bella e serena, una possibilità di divertimento e di condivisione.
Un grazie va anche a te che hai deciso di fare parte di questo avvenimento che si trova al cuore della nostra estate.
Siamo qui ad aspettarti a braccia aperte.
Don Giuseppe e il Comitato Organizzativo della Sagra
Beati i puri di cuore perché vedranno Dio
Questa beatitudine si riferisce a chi ha un cuore semplice, puro, senza sporcizia, perché un cuore che sa amare non lascia entrare nella propria vita alcuna cosa che minacci quell’amore, che lo indebolisca o che lo ponga in pericolo. Nella Bibbia, il cuore sono le nostre vere intenzioni, ciò che realmente cerchiamo e desideriamo, al di là di quanto manifestiamo: «L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7). Egli cerca di parlarci nel cuore (cfr Os 2,16) e lì desidera scrivere la sua Legge (cfr Ger 31,33). In definitiva, vuole darci un cuore nuovo (cfr Ez 36,26).
«Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore» (Pr 4,23). Nulla di macchiato dalla falsità ha valore reale per il Signore. Egli «fugge ogni inganno, si tiene lontano dai discorsi insensati» (Sap 1,5). Il Padre, che «vede nel segreto» (Mt 6,6), riconosce ciò che non è pulito, vale a dire ciò che non è sincero, ma solo scorza e apparenza, come pure il Figlio sa «quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25).
È vero che non c’è amore senza opere d’amore, ma questa beatitudine ci ricorda che il Signore si aspetta una dedizione al fratello che sgorghi dal cuore, poiché «se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,3). Nel vangelo di Matteo vediamo pure che quanto viene dal cuore è ciò che rende impuro l’uomo (cfr 15,18), perché da lì procedono gli omicidi, i furti, le false testimonianze, e così via (cfr 15,19). Nelle intenzioni del cuore hanno origine i desideri e le decisioni più profondi che realmente ci muovono.
Quando il cuore ama Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40), quando questo è la sua vera intenzione e non parole vuote, allora quel cuore è puro e può vedere Dio. San Paolo, nel suo inno alla carità, ricorda che «adesso noi vediamo come in uno specchio, in modo confuso» (1 Cor 13,12), ma nella misura in cui regna veramente l’amore, diventeremo capaci di vedere «faccia a faccia» (ibid.). Gesù promette che quelli che hanno un cuore puro «vedranno Dio».
Mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità. (EG 83-86)
Beati coloro che sono nel pianto
Il mondo ci propone il contrario: il divertimento, il godimento, la distrazione, lo svago, e ci dice che questo è ciò che rende buona la vita.
Il mondano ignora, guarda dall’altra parte quando ci sono problemi di malattia o di dolore in famiglia o intorno a lui.
Il mondo non vuole piangere: preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle, nasconderle.
Si spendono molte energie per scappare dalle situazioni in cui si fa presente la sofferenza, credendo che sia possibile dissimulare la realtà, dove mai, mai può mancare la croce.
La persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice. Quella persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo.
Così può avere il coraggio di condividere la sofferenza altrui e smette di fuggire dalle situazioni dolorose.
In tal modo scopre che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri.
Questa persona sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita.
San Paolo dice: «Piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15).
Saper piangere con gli altri, questo è santità.
Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia
«Fame e sete» sono esperienze molto intense, perché rispondono a bisogni primari.
Ci sono persone che con tale intensità aspirano alla giustizia e la cercano con un desiderio molto forte.
Gesù dice che costoro saranno saziati, giacché presto o tardi la giustizia arriva, e noi possiamo collaborare perché sia possibile.
Ma la giustizia che propone Gesù non è come quella che cerca il mondo, molte volte macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato o dall’altro.
La realtà ci mostra quanto sia facile entrare nelle combriccole della corruzione, far parte di quella politica quotidiana del “do perché mi diano”, in cui tutto è commercio.
E quanta gente soffre per le ingiustizie, quanti restano ad osservare impotenti come gli altri si danno il cambio a spartirsi la torta della vita.
Alcuni rinunciano a lottare per la vera giustizia e scelgono di salire sul carro del vincitore.
Questo non ha nulla a che vedere con la fame e la sete di giustizia che Gesù elogia.
Tale giustizia incomincia a realizzarsi nella vita di ciascuno quando si è giusti nelle proprie decisioni, e si esprime poi nel cercare la giustizia per i poveri e i deboli.
Certo la parola “giustizia” può essere sinonimo di fedeltà alla volontà di Dio con tutta la nostra vita, ma se le diamo un senso molto generale dimentichiamo che si manifesta specialmente nella giustizia con gli indifesi: «Cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,17).
Cercare la giustizia con fame e sete, questo è santità. (EG 75-79)
E' un'espressione forte, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini, e perfino per il loro modo di parlare e di vestire.
Insomma, è il regno dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di innalzarsi al di sopra degli altri.
Tuttavia, nonostante sembri impossibile, Gesù propone un altro stile: la mitezza.
È quello che Lui praticava con i suoi discepoli e che contempliamo nel suo ingresso in Gerusalemme:
«Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro» (Mt 21,5; cfr Zc 9,9).
Egli disse: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29).
Se viviamo agitati, arroganti di fronte agli altri, finiamo stanchi e spossati.
Ma quando vediamo i loro limiti e i loro difetti con tenerezza e mitezza, senza sentirci superiori, possiamo dar loro una mano ed evitiamo di sprecare energie in lamenti inutili.
Per santa Teresa di Lisieux «la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui, non stupirsi assolutamente delle loro debolezze».
Paolo menziona la mitezza come un frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,23).
Propone che, se qualche volta ci preoccupano le cattive azioni del fratello, ci avviciniamo per correggerle, ma «con spirito di dolcezza» (Gal 6,1), e ricorda:
«e tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (ibid.).
Anche quando si difende la propria fede e le proprie convinzioni, bisogna farlo con mitezza (cfr 1 Pt 3,16), e persino gli avversari devono essere trattati con mitezza (cfr 2 Tm 2,25).
Nella Chiesa tante volte abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello della Parola divina.
La mitezza è un’altra espressione della povertà interiore, di chi ripone la propria fiducia solamente in Dio.
Di fatto nella Bibbia si usa spesso la medesima parola anawim per riferirsi ai poveri e ai miti.
Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole”.
Forse sarà così, ma lasciamo che gli altri lo pensino.
E’ meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più grandi aspirazioni: i miti «avranno in eredità la terra», ovvero, vedranno compiute nella loro vita le promesse di Dio.
Perché i miti, al di là di ciò che dicono le circostanze, sperano nel Signore e quelli che sperano nel Signore possederanno la terra e godranno di grande pace (cfr Sal 37,9.11).
Reagire con umile mitezza, questo è santità. (EG 71-74)
Il Vangelo ci invita a riconoscere la verità del nostro cuore, per vedere dove riponiamo la sicurezza della nostra vita.
Normalmente il ricco si sente sicuro con le sue ricchezze, e pensa che quando esse sono in pericolo, tutto il senso della sua vita sulla terra si sgretola.
Gesù stesso ce l’ha detto nella parabola del ricco stolto, parlando di quell’uomo sicuro di sé che, come uno sciocco, non pensava che poteva morire quello stesso giorno.
Le ricchezze non ti assicurano nulla. Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per amare i fratelli, né per godere delle cose più importanti della vita. Così si priva dei beni più grandi.
Per questo Gesù chiama beati i poveri in spirito, che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore con la sua costante novità.
Questa povertà di spirito è molto legata con quella “santa indifferenza” che proponeva sant’Ignazio di Loyola, nella quale raggiungiamo una bella libertà interiore: «Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga piuttosto che quella breve, e così in tutto il resto».
Luca non parla di una povertà “di spirito” ma di essere «poveri» e basta (cfr Lc 6,20), e così ci invita anche a un’esistenza austera e spoglia.
In questo modo, ci chiama a condividere la vita dei più bisognosi, la vita che hanno condotto gli Apostoli e in definitiva a conformarci a Gesù, che «da ricco che era, si è fatto povero». Essere poveri nel cuore, questo è santità